Ospedale di San Francesco Grande in Padova, un progetto di cancellazione della memoria

A qualcosa dovrebbero esser servite le migliaia di pagine scritte, i tanti convegni e le “carte” per definire i criteri per il recupero di un manufatto pubblicate litigando sul singolo aggettivo. Adesso,  chiunque approcci al restauro di un manufatto si preoccupa di dichiararsi, almeno a parole nella relazione, pronto al pieno rispetto della fabbrica nella sua interezza ed integrità fingendo facili e semplicistiche operazioni di “pulizia”.
Anche nel caso del complesso dell’ex Ospedale di S. Francesco Grande a Padova è accaduto qualcosa del genere. Ad una prima e superficiale lettura del progetto sembra di essere di fronte al recupero di un isolato da adibire a Museo della Medicina attento al rispetto della fabbrica nella sua interezza storica e stratigrafica, salvo scoprire poi che è in atto l’ennesima operazione di sottrazione e scrematura delle presunte superfetazioni (e non solo). Si legge nella relazione di progetto (e diventa chiarissimo guardando con attenzione i grafici esecutivi): ”il lavoro successivo è stato quello di definire sulla base delle risultanze delle analisi storiche una graduatoria di valori storico-architettonici da conservare, recuperare, restaurare per la tutela e la valorizzazione del monumento fino a stabilire una soglia sotto la quale è stata individuata una serie di elementi estranei (recenti e rozze superfetazioni casuali, sconsiderati interventi mutilanti strutture preesistenti, etc) la cui conservazione risultava in palese incompatibilità con i valori da recuperare.” [1] Si è quindi di fronte all’ennesimo progetto si pulizia, liberazione, cancellazione della storia di un edificio per scegliere e selezionare arbitrariamente “valori da recuperare” a scapito della ricchezza e complessità della stratificazione di segni e storia che rappresentano l’essenza e la vita di un edificio.
Il complesso ospedaliero occupa un’area triangolare di circa 2900 mq proprio nel centro della città di Padova fra le vie San Francesco a nord, la via del Santo a ovest e a sud-est e la via dei Vignali. Fu fondato nel 1414 su un terreno libero da manufatti e destinato sin dai primi tempi ad ospedale, per volontà ed impegno di due benefattori i coniugi Baldo da Piombino e Sibilla De Cetto. Cosa inusuale per quei tempi, il complesso nasceva all’interno delle mura cittadine e, se pur legato sin dai primi anni ai Francescani, non era un’istituzione religiosa. Il complesso denominato nel corso del Quattrocento Hospedal de San Franzescho e de la Osservanza si stratifica in diversi corpi di fabbrica, orti e strutture ecclesiastiche ed è proprio da questa sovrapposizione di elementi che deriva la straordinarietà della fabbrica.
L’ospedale per quasi quattro secoli rappresenta il luogo di ricovero e studio della medicina arricchendosi di segni e testimonianze che ne segnano profondamente le strutture. Nel 1798 i ricoverati sono trasferiti nel nuovo Ospedale Giustinianeo e cessa l’attività ospedaliera e di studio mentre la fabbrica assume altre funzioni (caserma, complesso abitativo, magazzino). Nel 1959 il complesso è acquisito dalla Provincia di Padova che avvia le procedure per il recupero e la rifunzionalizzazione della struttura che, nelle intenzioni  dell’amministrazione, diverrà Museo della Medicina.
Il progetto di restauro è stato realizzato in relazione alla volontà espressa dalla committenza di musealizzare il manufatto e, al contempo, di ospitare un museo e le attività correlate. La coincidenza fra destinazione funzionale prescelta e storia della fabbrica ha indotto i progettisti a lavorare attorno alla definizione di una scala di valori storico architettonici articolata in quattro “gradini”. Si va dagli elementi molto significativi ed irrinunciabili, agli elementi significativi, fino alle superfetazioni incongrue, agli elementi estranei ed intollerabili. Secondo questa singolare scaletta vengono quindi definiti quali irrinunciabili i “setti medioevali” perpendicolari alla via San Francesco che vengono denudati con furia neomedievalista di “tutti gli interventi estranei sia orizzontali che verticali”. Nella relazione non viene indicato come verrebbero individuate le parti condannate anche se, analizzando i grafici diviene chiara l’intenzione di “liberare” il manufatto, almeno per quello che riguarda l’interno della fabbrica, di tutti gli elementi costruiti successivi al ‘700. Per le facciate i progettisti ritengono di non modificare la “forometria” (!) (“anche qui le trasformazioni avvenute nelle varie epoche sono molteplici e, probabilmente, secondo le teorie più attuali sul restauro e/o ripristino dei manufatti, hanno tutte pari diritto di essere conservate”? ma l’intervento propone di occultare la pelle laterizia esistente sotto un nuovo strato d’intonaco nel quale è “ritagliata” la memoria del progetto di restauro (mai eseguito) del Businari (1817).
Ma all’interno le cose vanno molto peggio: la trovata più grottesca (sul piano filologico) è la riproduzione del quadriportico perduto con una invasiva grande rampa incastellata su telai alti tre piani; sublime invenzione… Anche la corte interna subirà lo stesso trattamento: è questo un “simulacro di loggiato” che, nelle intenzioni dei progettisti dovrebbe recuperare la “percezione dell’antica spazialità". Questo loggiato, pensato in metallo, ospiterà una rampa inclinata che, seguendo il perimetro della corte, consentirà di raggiungere i vari e nuovi livelli previsti in progetto.
In definitiva il progetto presentato come intervento di conservazione e restauro del manufatto rappresenta l’ennesimo esempio di arrogante cancellazione della storia e della straordinaria stratificazione che una fabbrica ha saputo e potuto raccogliere. Ancora tornano in auge termini giudiziari ormai disusati quali “superfetazione” o “liberazione”.


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