Francesco Venezia: la complessività delle stratificazioni

INTERVISTA A FRANCESCO VENEZIA

F. B. Nei suoi primi lavori a Lauro si nota una grande attenzione al contesto, la nuova sistemazione della piazza, le case da Lei realizzate dialogano con la preesistenza, sentono il genius loci ...

F. V. Molto spesso, ad una prima lettura  del  sito nel quale il nostro progetto andrà ad inserirsi, non traspare la complessità delle trasformazioni e delle stratificazioni che  esso ha sedimentato. Comunque penso non si parta mai dall'idea di armonia fra il nostro progetto ed il sito che lo deve ospitare. Il progetto ha sempre una propria autonomia. Naturalmente tutto il lavoro di adattamento dell'idea iniziale alle condizioni del sito determina talvolta quella piacevole sensazione di non riuscire a distinguere dove il nostro intervento cominci. Mi sembra che questo sia accaduto anche per la piazza di Lauro.
Credo che un’opera felicemente riuscita è un’opera che non ci lascia immaginare quel sito priva di essa. Questo è quasi un miracolo, perché inizialmente il sito non prevedela nostra opera. Il cantiere che realizza il progetto infligge una ferita; quando tutto è finito, se il progetto è stato concepito bene e realizzato bene, quasi non leggiamo i confini fra ciò che abbiamo fatto e ciò che è preesistente.

F. B. diverso è il caso del suo progetto per il museo a Gibellina nuova (le Case di Lorenzo), dove Lei si è trovato a lavorare in un contesto non antropizzato nel quale doveva inserire alcuni frammenti di un edificio della Gibellina terremotata.

F. V. nelle discussioni preliminari alla formulazione dell'incarico mi si chiese di trovare un modo di tenere in piedi questa facciata, quasi di prospettare una soluzione di tipo tecnico...

F. B. invece Lei ha realizzato una struttura di supporto che si fa anch'essa carico delle valenze di memoria che inizialmente erano solo affidate alla facciata strappata della città terremotata.

F. V. quando mi fu chiesto di realizzare quel progetto ero interessato ad una particolare forma di architettura a cui bene potevo attingere per la realizzazione della struttura che ospitasse la facciata "spoliata" dalle Case di Lorenzo. Ritengo infatti che i progetti che si realizzano felicemente sono quei progetti il cui incarico viene conferito quando una determinata idea è giunta a maturazione. E spesso questa idea prescinde completamente dall'incarico stesso e dal sito nel quale si inserirà il progetto. Si potrebbe dire che più che un buon rapporto con il contesto, bisogna avere un buon rapporto con la propria testa, bisognerebbe arrivare all'incarico con qualcosa nella testa. Nel momento in cui viene dato l'incarico la forza dell'idea diventa un "interlocutore" della situazione specifica. Più forte è l'idea, più forte è il rapporto che si stabilisce fra la propria idea e le esigenze del sito nel quale inserire il progetto. Ritengo che questo sia molto più interessante del conflitto -molto fiacco- che si stabilisce nella mente del progettista quando arriva in un posto e comincia a pensare cosa sia adeguato e corretto realizzare in quel posto. Quando mi hanno chiesto di progettare la struttura per le case di Lorenzo stavo riflettendo su alcune fabbriche del manierismo italiano, mi riferisco soprattutto alla sequenza di cortili di Villa Giulia a Roma o al cortile della Cavallerizza a Mantova. Venuta Gibellina sono scattate una serie di risposte....

F. B. Una costante che si può rilevare all'interno dei suoi progetti mi pare sia la volontà di recuperare alla materia la memoria dell'uso che le è consono, della regola d'arte che si è oramai persa. Nelle case di Lorenzo ogni parete, ogni dettaglio racconta di questo sforzo. Potremmo dire che parte del suo lavoro voglia assumere quasi una dimensione didattica.

F. V. Nella costruzione delle Case di Lorenzo, per quello che concerne i materiali, è rimasto conforme al progetto iniziale solo la soluzione per la parete che accoglie il frammento della vecchia facciata, sulle altre facce del cortile interno forse c'è questa volontà di ricerca. Penso, in questo senso, al progetto di Alvar Aalto per la sua casa di vacanza di a Muraatsalo dove organizza le tre pareti del cortile aperto come un momento di riflessione sull'uso del mattone, quasi ci fosse la volontà di realizzare un piccolo museo sulle tecniche di utilizzo del mattone. A Gibellina non c'è una forzatura in questa direzione, anche se è vero che c'è, su ciascuno dei muri, una sorta di messa a punto della tecnica da utilizzare.

F. B. Mi pare che si possa dire che questa messa a punto sia anche finalizzata ad una riflessione sulla materia che tenga conto della capacità di "invecchiare" della materia stessa. Come se ci fosse una volontà precisa di fare in modo che Le sue architetture vivano oltre la transitorietà e la caducità professate da Marinetti e dal movimento moderno.

F. V. Probabilmente quello che dice è vero. L'attenzione posta nella realizzazione del museo di Gibellina è legata anche al trauma subito vivendo lo scempio che, negli anni, ha subito la piazza di Lauro. In quel caso, anche per l'esiguitià del finanziamento, si sono dovuti utilizzare materiali di spessore ridotto che non hanno saputo resistere agli oltraggi degli uomini. A Gibellina viceversa mi sono deciso ad utilizzare un sistema di materiali, di spessori, di tecniche di montaggio, tali da garantire una notevole capacità di resistenza e di invecchiamento. Riflettendo sul fatto che, col tempo, gli agenti atmosferici avrebbero giocato a favore dell'opera stessa. Tornando a Gibellina ad una distanza di una decina di anni ho constatato con piacere che l'opera aveva saputo invecchiare. Le pietre della rampa di accesso, ad esempio, avevano,  senza danneggiarsi, assunto colorazioni diverse a seconda dell'esposizione al sole ed alle acque meteoriche. Tutti questi fattori danno all'opera quella certa componente "patetica", che l'opera appena completata non ha. Un manufatto appena completato è come se non avesse sofferto, è come un neonato con una bella pelle. Se si vuole fare un parallelo è come per l'uomo: un manufatto molto giovane non ha "somatizzato" le esperienze che ha vissuto. Molto spesso sono infatti più interessanti i volti degli uomini che anno vissuto molto piuttosto che quello di giovani privi di esperienze.

F. B. questo mi pare sia vero sopratutto quando c'è un progetto di manutenzione, di conservazione ......

F.V. Normalmente l'acqua, il sole, le intemperie, il calore possono agire positivamente o possono scardinare un edificio. Il problema è di fare in modo che non lo scardinino. Questo chiaramente entro certi limiti. Prima o poi infatti tutta l'architettura viene scardinata dalla natura, è meglio non farsi illusioni. Però ci sono edifici che durano mille anni, edifici che durano centocinquanta anni ed edifici che durano tre anni....

F. B. ma gli edifici contemporanei, costruiti in calcestruzzo armato mi pare che siano destinati a durare poche decenni.

F.V. Infatti penso che gli edifici contemporanei sono destinati a vivere cinquanta o sessantant'anni. Dopo creeranno tanti di quei problemi che sarà necessario abbatterli e ricostruirli.

F.B. Tra i compiti che vengono affidati agli architetti c'è anche quello della "cura" degli edifici anziani. Come si deve porre un architetto  quando gli viene affidato l'incarico di curare un edificio che ha sedimentato sulle proprie mura tanti anni di storia. Come relazionare il proprio intervento con la storia che quelle mura raccontano.

F.V. Questa è una domanda che prevede una presa di posizione globale. Da una parte c'è certamente un problema di manutenzione ordinaria. Garantire per l'edificio quella manutenzione, quella pulizia che garantisca "l'igiene" della fabbrica. Ben altra cosa è levare quella patina che è costituita dalla trasformazione chimica ed organica del materiale. Se noi vediamo una roccia in natura, notiamo che ha una faccia vista che è profondamente diversa dalla faccia "interna" che scopriamo quando rompiamo la roccia. E' molto importante concepire il valore estetico della sana azione del tempo sulle pietre, sugli edifici. Il trascorrere del tempo trasforma i materiali, li naturalizza. Cioè li porta a quella condizione della faccia vista della roccia naturale.

Se immaginiamo la facciata di una cattedrale gotica appena terminata sappiamo che l’aspetto delle pietre della facciata era la stessa delle pietre "spaccate". Era la stessa della faccia "interna" della roccia. Ci sono voluti secoli per trasformare la mole della cattedrale nella immagine attuale che possiede tutta la "memoria" del tempo che è trascorso. Le raschiature brutali che sono di moda in questi anni sono semplicemente l'annullamento dell’azione del tempo. Sono l'annullamento di una trasformazione naturale della parte superficiale della pietra.

Diverso è il caso del deterioramento prodotto dall'azione dello smog. In questo caso è necessario operare preventivamente per garantire, nei centri storici, un livello di emissioni tali da non attaccare in forma irreversibile le pietre dei monumenti. Ritengo però che la soluzione non sia ricercabile all'interno di proposte che prevedano la chiusura totale dei centri storici, quanto in proposte che garantiscano un flusso sostenibile del traffico.

F. B. Spesso, per garantire la sopravvivenza di un edificio storico, si chiede all'architetto di lavorare realizzando un intervento che si caratterizzi sia quale espressione della cultura contemporanea,  che per la possibilità  di modificare la destinazione d'uso originaria del manufatto.

F. V. Se noi guardiamo con attenzione alla storia, alla costituzione ed alla trasformazione dei nostri centri storici, vediamo che dietro ogni edificio che amiamo, c'è stato molto spesso la dolorosa distruzione di un edificio precedente.  La distruzione in architettura è feconda quanto la costruzione. Non la distruzione in quanto tale, ma il fatto che la distruzione mettesse in essere un  volontà di emulazione che non avrebbe fatto rimpiangere l’atto distruttivo. Questo significava l’assunzione di una grande responsabilità.

Immaginiamo la vicenda di San Pietro a Roma. Tento di immaginare che cosa dovesse essere il vecchio San Pietro, che Basilica straordinaria, che coacervo di memorie, di reliquie, di mosaici. Eppure si prese la dolorosa decisione perchè c'era il pieno convincimento che la civiltà che distruggeva e ricostruiva poteva esprimere un valore equivalente a ciò che distruggeva, anzi migliore. Possiamo dire che nella maggior parte dei casi finiamo col non rimpiangere troppo quello che è stato distrutto.

Adesso che cosa accade. Da tempo si sono creati due settori distinti. Il settore della tutela ed il settore della nuova progettazione. La tutela ha investito l'intero territorio del centro storico, la nuova progettazione ha investito le zone di espansione e le periferie. Non essendoci più contiguità con edifici del passato, essendo caduta la pratica del sostituire è caduto completamente lo spirito di emulazione e le tecniche progettuali conseguenti. Il nostro lavoro si è progressivamente impoverito fino a ragiungere minimi insostenibili. In particolare è andata perduta quell’arte di adeguamento degli schemi astratti alle complessità ed alle necessità del sito. Si è persa tutta l'arte del costruire realizzata per deroghe a schemi ideali. Ma c’è di più e c’è di peggio. Frequentemente la superficialità della pratica progettuale nelle zone di periferia si è riversata sulla pratica del restauro degli edifici del Centro Storico. Molte categorie d’opera caldeggiate dalle Soprientendenze per il restauro di monumenti sono le stesse applicate in adroni di condomini e in pizzerie della cintura urbana!

Se si guarda alla storia si può rilevare che non esiste palazzo rinascimentale che non abbia deformazioni rispetto ad un impianto ideale. Ma spesso il segreto di questi edifici è costituita proprio da queste deformazioni. E non sono le deformazioni con le quali si lavora oggi in astratto, deformazioni che nessuno richiede. Sono deroghe ad un impianto estremamente rigoroso, commissurato, pretese dalla situazione reale.

Ogni edificio viene visto come sistema ideale, intoccabile, mentre quella fabbrica è il frutto di una serie di aggiunte, trasformazioni. Ogni grande complesso architettonico del passato è il frutto di una vicenda molto articolata, di cui noi abbiamo perso il sentimento. Per questo non riusciamo nemmeno a riflettere, questo sentimento, nel nostro lavoro progettuale. E paradossalmente fu consentito solo ai grandi speculatori edilizi del dopoguerra, come Ottieri a Napoli, di edifcare nei Centri Storici. E quando si è offerta la rara possibilità ad un buon architetto di costruire in un Centro Storico, si era ormai costituita una situazione insopportabile: una Spada di Damocle che fiaccava la forza creativa e compositiva dell'architetto stesso. Io faccio spesso l'esempio di Gardella. Egli ha prodotto delle ottime cose, ma quando alle Zattere gli è stato concesso di fare ciò che era stato tante volte negato, è accaduto che il suo talento non ha dato una risposta adeguata. Un lavoro che potremmo definire modesto soprattutto se confrontato con le altre sue opere. Ma ritengo che il tutto è appunto dovuto a quella spada di Damocle costituita da decenni di inbizione. Come sono lontani i tempi felici degli interventi di Terragni a Como con la Casa del Fascio ed a Roma con il progetto per il Danteum !.

Ma è accaduta un'altra cosa particolarmente grave, dovuta appunto alla mancanza di "emulazione" nell'approccio del progettista ai centri storici. Si sono eclissati negli ultimi cinquant'anni i mezzi di produzione di un edificio degno di un centro storico. Il che non significa costruire una fabbrica con i materiali degli edifici contigui, ma costruire con delle qualità insite nella forma e nella natura dei materiali stessi. Quando mi dicono che in un contesto storico bisogna utilizzare materiali nobili, di solito rispondo che è invece opportuno utilizzare i materiali in una forma nobile.


WEB AGENCY