Napoli e Milano separate da una panchina
Il comune di Milano assieme alla ULI (Urban Land Institute Italy) ha deciso di promuovere un pubblico dibattito sull’arredo urbano della città e nello specifico sulla scelta di una panchina per Milano. Sei aziende assieme a sei designer hanno prodotto altrettante panchine prototipo tra le quali una giuria specializzata e gli stessi abitanti sceglieranno il modello che arrederà le strade della città.
Le panchine vengono proposte in questi giorni alla cittadinanza attraverso affissione di manifesti stradali, campagne mediatiche di vario genere e presentate in originale in una esposizione nel palazzo della Triennale.La giuria, preseduta da Vico Magistretti e composta da grandi nomi del design contemporaneo, attribuirà il cinquanta per cento del punteggio, il resto verrà affidato al plebiscito popolare espresso via internet, sms e con opportune schede da ritirare dopo aver visto i prototipi al palazzo della Triennale. Il progetto che risulterà vincitore arrederà le principali piazze della città.
I pochi meridionali che sono andati a visitare il Salone del Mobile di Milano, nell’ambito del quale era presentata l’iniziativa, hanno potuto, una volta di più, realizzare l’abisso che separa le “province dell’impero” dalla capitale culturale ed economica dello stesso. Abisso non solo economico ma, prima di tutto, culturale e civile. Da una parte c’è una città come Milano che si pone problematiche di identità collettiva e in ragione delle quali cerca di identificare i simboli capaci di esprimerla. Elabora per questo un progetto di arredo urbano per scegliere un modello di panchina simbolo della città, nonché le democratiche e partecipative modalità di selezione delle stesse. Coinvolge la cittadinanza con cartelloni stradali, mostre, siti internet dedicati con il duplice proposito di selezionare il prodotto maggiormente gradito e di aumentare il senso di appartenenza alla collettività del cittadino. Dall’altra i sudditi della provincia nella quale viviamo subiscono passivamente le scelte della classe politica a tutti i livelli, dall’arredo urbano alle grandi questioni urbanistiche considerati ancora poco più che lazzari ai quali proporre soltanto “pane e panelle”.
Quella dell’immagine degli spazi collettivi è infatti questione importante. Serve a coltivare, a sviluppare nel cittadino il senso di appartenenza, l’idea che, ciò che è di tutti è espressione della collettività che lo ha realizzato. Proprio da questo punto di vista la città di Napoli, come forse gran parte del Meridione, non è mai riuscita a superare lo stereotipo di una “napoletanità” che condanna il napoletano a elaborare la propria identità, facendo assurgere l’approssimazione, l’arte di arrangiarsi a modello a cui conformarsi secondo uno schema tutto proiettato su se stesso, incapace di evolvere verso altro che non preveda la negazione dell’idea di collettività, per scegliere di inseguire le chimere di un individualismo “furbesco” che, nel premiare qualcuno, condanna la maggioranza all’anarchia e al dramma che quotidianamente viviamo.
E’ disarmante constatare che da un lato a Milano, nel giro di pochi anni, l’amministrazione comunale ha realizzato una nuova area fieristica ed è riuscita ad organizzare nella vecchia, che si andrà a breve a smantellare, un importante competizione internazionale già aggiudicata che prevede la costruzione di grattacieli, parchi, residenze ed uffici e nel contempo è capace anche di pensare alle panchine della città, mentre a Napoli, Bagnoli è ferma da dieci anni e le scelte per l’immagine e lo sviluppo della città (ancora tutte da vedere, sbandierate solo a mezzo stampa ai cittadini), invece di essere realizzate attraverso competizioni internazionali con la partecipazione della collettività, vengono imposte dall’alto come è stato per la Villa Comunale o per i progetti di piazza Municipio e di piazza Garibaldi. Sintomatico di ciò è come le nostre amministrazioni considerino i propri elettori nella scelta degli arredi urbani che, invece di essere proposti e scelti con una logica simile a quella di Milano, vengono imposti alla cittadinanza in una fiera di soluzioni tutte di cattivo gusto accomunate solo da una poetica del finto antico per il quale luci, arredi e panchine varie non possono che essere imposti alla cittadinanza con modelli finto Ottocento.
Ma è possibile che nell’era della comunicazione, del villaggio globale, poche centinaia di chilometri di distanza possano proporre un modello sociale così diverso? Ma sono i cittadini di Napoli e Milano ad essere diversi, bisognosi di politiche sociali differenziate o sono i nostri amministratori che non riescono a comprendere che dalla partecipazione, dal coinvolgimento della gente può svilupparsi quel senso della collettività che, almeno a parole, tanto anelano? Cerchino allora, i nostri amministratori, di guardarsi un po’ di più in giro, non abbiamo timore a proporre soluzioni che in altre realtà hanno dimostrato di funzionare, perché la strada della democrazia partecipata, della condivisione delle scelte è l’unica capace di sviluppare quel senso di appartenenza che tanto manca nel nostro territorio.